mercoledì 27 agosto 2014

Incontri


Oggi, giovedì 28 agosto, alle 19, a Marzamemi, chiosco La Muciara, presento insieme all'autore il libro di Domenico Trischitta 1999 (Il Garufi Edizioni, 2013) nell'ambito di "Aperitivo con l'Autore".

mercoledì 20 agosto 2014

Un'intervista a Beatrice Monroy



"Corriere del Ticino" 8-8-2014
https://docs.google.com/file/d/0B7Uog5OWVnXmX2lHZ0NieW1Pdkk/edit

Raccontare i “vinti” contro la cultura dominante

Con Oltre il vasto oceano. Memoria parziale di Bambina (Avagliano, 2013) Beatrice Monroy ha vinto il premio Kaos 2014 ed è stata candidata al premio Strega 2014. Palermitana, ha vissuto a Napoli, Pisa, Roma, in Francia, negli Stati Uniti. A Palermo nel 2006 ha ideato “La notte dei mille racconti”. Conduce laboratori di scrittura e di narrazione, insegna drammaturgia alla Scuola del Teatro Stabile di Palermo diretta da Emma Dante. Gli altri suoi libri sono: Tutti in scena. Manuale di drammaturgia (La Meridiana 2010), Elegia delle donne morte (Navarra 2011, racconti letti a RadioTre dal 7 all’11 marzo 2014), Niente ci fu (La Meridiana 2012), Ragazzo di razza incerta (La Meridiana 2013), il romanzo collettivo Il libro delle vergini imprudenti (Navarra 2014).


Beatrice Monroy, il tuo lavoro di scrittrice non si svolge esclusivamente sulla pagina scritta, anche a teatro, nei corsi, nei laboratori, negli incontri che fai in tutta Italia e dove sei accolta da persone che ti seguono e che tu segui, quasi piccoli cenacoli che coltivano relazioni speciali. E lavori sulla narrazione. La centralità del narrare è proprio una delle qualità della tua scrittura. In un tuo libro del 2012, Niente ci fu (La Meridiana), la voce narrante è un coro emozionato che dà testimonianza di un fatto, di un problema irrisolvibile: “Di Franca Viola e delle altre noi narriamo”. Insomma, come vedi il rapporto fra scrittura e voce, fra il segno e il corpo?

- La voce nasce nel corpo, diventa vibrazione e intenzione, così diventa parola. Poi le parole si connettono tra loro, la sintassi!, e nasce il discorso. Lì, dunque, in questi spazi di noi che dal corpo passano alla mano che scrive, alla mente attraverso l’energia, si raccontano le storie. Questo per dire che non esiste voce e parola senza corpo.

Nel caso di Franca Viola, però, la sua voce è assente. Quel suo primo “no” al matrimonio riparatore, nel 1965, arriva a pronunciarlo perché quelli che intorno a lei hanno il potere (il padre e il capoclan) hanno interesse che lei lo dica.

- Sì, tutto il libro è un’indagine sul silenzio e su parole dette da altri che non sono, forse, le sue. Era questo a interessarmi in modo particolare, il “niente ci fu”, il considerare niente e quindi privo di narrazione quello che invece è fondamentale in quella storia, la violenza subita dalla ragazza.

Ancora su Niente ci fu. Mi ha colpito, fra i materiali che accludi, il glossarietto con la voce “Colonizzato” e la citazione della scrittrice e attivista americana bell hooks sul “riprendere possesso di noi stessi” e sulle donne “abusate nello sguardo”. Un riferimento culturale forte a concetti come gender, race and class che in Italia sono accuratamente ignorati non solo dai media ma anche dal dibattito culturale. Dunque bisogna parlarne. Secondo te, come si può riprendere possesso di se stessi, e che cos’è l’abuso dello sguardo?

 - Io mi rifaccio al pensiero di quel tipo di femminismo che bell hooks rappresenta. Non è vero che sia assente in Italia, piuttosto direi che è celato come tante altre cose da una cultura dominante che ci sta atterrando, molto sottile e sotterranea e piaciona, difficile da percepire e che ci fa sempre cadere in trappola. L’abuso dello sguardo è quello che succede sempre, non potere definire il proprio corpo se non attraverso modelli che si dicono normali e che invece non sono altro che la norma dei vincitori. Per riprendere possesso di se stessi... lunga è la strada...

Quindi il tuo narrare è un rendere testimonianza di un pensiero diverso dal pensiero dominante. Da qui l’importanza di raccontare la storia di Mariano Scalisi, il poeta figlio di emigrati siciliani in Tunisia morto sconosciuto nel manicomio di Palermo (Ragazzo di razza incerta, La Meridiana, 2013). Una storia che denuncia il modo in cui la società italiana percepisce il migrante. Su questo cosa pensi che si dovrebbe fare e non si fa, sui media, a scuola, nelle università?

- Sì, esatto, per me scrivere è questo. Cosa fare: io non lo so, non è il mio mestiere, posso dire che almeno bisognerebbe insegnare la verità... e narrare le storie che hanno fatto la Storia, le storie piccole che piccole non sono.

Il narrare storie è anche il tema del tuo ultimo libro, Oltre il vasto oceano. Memoria parziale di Bambina (Avagliano, 2013): un libro di grande respiro, insieme romanzo storico e autobiografia fatta di storie ascoltate, vissute, e tramandate, con episodi coinvolgenti e di straordinaria intensità. Leggendolo, si è portati a chiedersi quale sia il senso delle storie individuali, quale filosofia della storia ci sia sotto: la condizione storica tende a negare ogni umanità e libertà, in un ripetersi ostinato di incapacità e di violenze.

- Sì, in fondo, come tutti mi dicono, è un romanzo un po’ triste, ma questa mi sembra la nostra situazione, anche se io scrivendolo mi sono divertita molto e mi sono sentita meglio. Credo che dobbiamo renderci conto che molti di noi, io sicuramente, siamo dei vinti come pensiero e azioni. Riconoscerlo però non è sconfortante, è un modo per andare avanti e riprendere il cammino.

Bambina, che è pienamente protagonista e voce narrante, raccoglitrice e creatrice di storie, ce la fa a salvaguardare la propria integrità: per esempio nell’episodio del terremoto, è lei il soggetto che osserva, vive e interpreta tutto ciò che accade. Invece, l’antenata giovinetta tisica, raccontata da altri, altro non può fare che proiettarsi nella morte, scegliendo di essere una delle mummie delle catacombe dei Cappuccini di Palermo.

- Sì, è così. Bambina però ha il passato, e ci lavora sopra, dunque non è più vittima, ma agisce come soggetto cosciente nella società e nella storia. La ragazza delle catacombe fa tutto quello che le dicono di fare... Ci ho tenuto particolarmente a narrare una genealogia femminile, proprio per fare vedere i passaggi di consapevolezza.

Le vicissitudini di famiglie aristocratiche e della loro progenie sono state spesso raccontate da scrittori siciliani, a partire dai Viceré di De Roberto a Tomasi di Lampedusa, al Brancati di Paolo il Caldo. Come ti sei posta nei confronti di questi o di altri scrittori?

- Loro sono i maestri, ma sono tutti maschi. Io sono una donna, aristocratica ma donna, e donna che ha vissuto gli anni ‘70: altri pensieri, altro modo di guardare l’Isola.

Possiamo dire che la Sicilia, centro delle tue storie, debba essere in qualche modo decodificata? Nel senso che la Sicilia è lo specchio dell’Italia, ed è “usata” come specchio dell’Italia. Nella rappresentazione della Sicilia che conosciamo, gli italiani scaricano sulla Sicilia tutti i mali pan-italiani. La politica parassitaria, il degrado, le distruzioni, la paura sono dati di fatto che si ripetono. Ma bisogna affermare che non dipendono in modo essenzialistico dalla “sicilianità”, e quindi non sono inevitabili. Te lo chiedo perché mi pare che invece l’idea di sicilitudine, di “Sicilia come metafora”, che Sciascia elaborò verso la fine della sua vita, sia un’idea monolitica e sbagliata perché non dà alternative, mentre nella tua visione ci sono necessità e motivazioni per il cambiamento.

- È una lunga storia. Adoro Sciascia e il suo pensiero, un grande maestro, un punto di riferimento. Credo che su questo tema bisogna fare i conti con il pensiero meridiano, unire Sciascia a Camus, ricordare cosa significa vivere in una terra che viene sempre raccontata dagli altri e soprattutto cominciare a narrarla dal nostro piccolo punto di vista. Allora tutto crolla e si rinnova. Allora si smette di essere colonizzato nella testa e nessuno si permetterà più di definirti in modo banale e univoco.

Anche perché la Sicilia non è una, ce ne sono tante. La Sicilia punica, la Sicilia greca, araba...; la Sicilia degli altri italiani e degli stranieri che vi si sono stabiliti, la Sicilia dei siciliani che vivono altrove e che ci ritornano. Oggi ci siamo incontrati a Siracusa, a Ortigia dove tutto questo è particolarmente evidente. Da qui potremmo ripartire?

- Sì, appunto, niente definizioni ma esseri umani che si muovono su un preciso territorio geografico. Facile no?