L’ultimo film di Wim Wenders, Il sale della terra, sulla vita e l’opera del fotografo brasiliano Sebastião
Salgado, nasce da una presa di consapevolezza fondamentale: le leggi che
governano i fatti del mondo non solo non producono più il bene collettivo (se
mai l’avessero prodotto) ma producono rovina e morte, condannano alla sterilità
l’ambiente, all’alienazione gli abitanti del pianeta. Questa constatazione è tanto
importante ed essenziale che - viene da pensare – è ben strano che sia raccontata
dentro una storia segnata dall’eccezionalità, e non come un percorso alla
portata di tutti, da realizzare nel nostro quotidiano.
E’ anche significativo che chi dichiara questo stato
mortifero del sistema, con semplicità e senza catastrofismo, siano degli
artisti (Wenders, Salgado), non dei teorici della politica o degli economisti.
La politica e l’economia dominanti persistono nella deleteria gestione del
potere globale, e hanno buon gioco a relegare pensieri e progettualità differenti
nell’area dell’alternativa cosiddetta “radicale”, utopica.
Racconta Wenders che il fotografo Salgado, dopo aver
raggiunto il successo mondiale con reportage di impianto umanitario e sociale (su
Sael, Angola, Mozambico, Sud America, le migrazioni, il lavoro umano), lascia
nel 1994 l’agenzia Magnum Photo e fonda, con la moglie Lelia Wanick Salgado, una
struttura indipendente, Amazonas
Images. Questo perché l’artista vive una crisi creativa legata sia alle
condizioni del sistema produttivo dell’arte sia agli stessi motivi che
giustificano il fare arte.
L’artista è testimone di disastri epocali, massacri e
genocidi che accadono apparentemente all’improvviso, inspiegabilmente, e che
rimangono lì, nell’orrore dell’indicibile e del non detto. La fotografia, l’opera
dell’artista, risuona “esteticamente” come documento-denuncia, entra nel
circuito della comunicazione proprio grazie alla sua forza perturbante e
sconvolgente. E lì si perde. Continua a vivere come oggetto estetico, sussulto
emotivo, ma non penetra nella consapevolezza e nelle coscienze, la sua profonda
mozione etica e politica sfuma nel flusso della citazione, perde il contesto e
perde di senso.
Ecco che il primo passaggio della scoperta dell’artista
Salgado-Wenders è la crisi dell’artista engagé, che sente vano il suo impegno
etico-artistico nei confronti della società. Ma questa crisi artistica va
ulteriormente approfondita. Non si tratta di una stanchezza individuale, si
tratta di riflettere sullo status della rappresentazione artistica nel contesto
della contemporaneità. La domanda da farsi è di questo tipo: fra le infinite
scelte che l’artista può operare, che cosa è giusto rappresentare tramite
l’arte? La realtà, la dignità degli individui, i loro diritti, dare una voce a chi
non ce l’ha. Ma se questo costringe l’artista a rappresentare l’orrore e la
distruzione, e il sistema della comunicazione ben si presta ad accogliere
queste rappresentazioni, come fa con le foto-notizia che bucano gli schermi, è
giusto che l’artista resti legato alla denuncia, al circolo vizioso di
distruzione orrore morte? A cosa serve rappresentare l’orrore se sappiamo bene
che atroci misfatti avvengono perché qualcuno ha interesse a non impedirli, a
non prevenirli?
Salgado aveva costruito il suo successo con reportage che
coglievano le ragioni dell’umanità e raccontavano le storie della loro
negazione, spesso dovute a scelte geopolitiche “inevitabili” e “anonime”. Abbandona
i reportage dai luoghi di crisi, sceglie di fare un altro discorso. Dedicarsi a
un discorso di vita invece di restare schiavo della cronaca di morte. Sentirsi
vivi andando a fotografare gli ambienti naturali e gli animali, anche a costo
di esser giudicato rinunciatario e bucolico. Lélia Wanick Salgado, curatrice
del progetto Genesis del 2008, spiega:
“Genesis è la ricerca del mondo delle
origini, come ha preso forma, si è evoluto, è esistito per millenni prima che
la vita moderna accelerasse i propri ritmi e iniziasse ad allontanarci
dall’essenza della nostra natura”. Grazie al contributo di Leila, Salgado
individua così il progetto “giusto” per superare la crisi creativa: osservare
la vita e dare vita, curando l’ambiente e conoscendo i modi e i ritmi della natura.
Il passaggio che conclude la storia del film di Wenders è la decisione di Sebastião
e Leila di dedicarsi alla fazenda
inaridita di famiglia, e di piantarvi migliaia di alberi per farla tornare il
luogo fecondo di cinquant’anni prima. E, come nel noto racconto di Jean Giono,
tornati i boschi, ritorna l’acqua, ritornano gli uccelli e gli animali
selvatici, l’ambiente favorevole alla vita umana. Il progetto artistico di Sebastião e Leila è stato
entrare in sintonia e favorire i modi della natura: un artefatto nella natura e con la natura.
Sebastião e Leila hanno ricreato un mondo vivo e ospitale,
la fazenda dell’infanzia felice. Un
eden, un’utopia? No, un progetto, che si chiama Instituto Terra e si può vedere qui: http://www.institutoterra.org/.
[Lorenzo Perrona]