martedì 25 agosto 2015

Le scelte dell'artista


L’ultimo film di Wim Wenders, Il sale della terra, sulla vita e l’opera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, nasce da una presa di consapevolezza fondamentale: le leggi che governano i fatti del mondo non solo non producono più il bene collettivo (se mai l’avessero prodotto) ma producono rovina e morte, condannano alla sterilità l’ambiente, all’alienazione gli abitanti del pianeta. Questa constatazione è tanto importante ed essenziale che - viene da pensare – è ben strano che sia raccontata dentro una storia segnata dall’eccezionalità, e non come un percorso alla portata di tutti, da realizzare nel nostro quotidiano.
E’ anche significativo che chi dichiara questo stato mortifero del sistema, con semplicità e senza catastrofismo, siano degli artisti (Wenders, Salgado), non dei teorici della politica o degli economisti. La politica e l’economia dominanti persistono nella deleteria gestione del potere globale, e hanno buon gioco a relegare pensieri e progettualità differenti nell’area dell’alternativa cosiddetta “radicale”, utopica.
Racconta Wenders che il fotografo Salgado, dopo aver raggiunto il successo mondiale con reportage di impianto umanitario e sociale (su Sael, Angola, Mozambico, Sud America, le migrazioni, il lavoro umano), lascia nel 1994 l’agenzia Magnum Photo e fonda, con la moglie Lelia Wanick Salgado, una struttura indipendente, Amazonas Images. Questo perché l’artista vive una crisi creativa legata sia alle condizioni del sistema produttivo dell’arte sia agli stessi motivi che giustificano il fare arte.
L’artista è testimone di disastri epocali, massacri e genocidi che accadono apparentemente all’improvviso, inspiegabilmente, e che rimangono lì, nell’orrore dell’indicibile e del non detto. La fotografia, l’opera dell’artista, risuona “esteticamente” come documento-denuncia, entra nel circuito della comunicazione proprio grazie alla sua forza perturbante e sconvolgente. E lì si perde. Continua a vivere come oggetto estetico, sussulto emotivo, ma non penetra nella consapevolezza e nelle coscienze, la sua profonda mozione etica e politica sfuma nel flusso della citazione, perde il contesto e perde di senso.

Ecco che il primo passaggio della scoperta dell’artista Salgado-Wenders è la crisi dell’artista engagé, che sente vano il suo impegno etico-artistico nei confronti della società. Ma questa crisi artistica va ulteriormente approfondita. Non si tratta di una stanchezza individuale, si tratta di riflettere sullo status della rappresentazione artistica nel contesto della contemporaneità. La domanda da farsi è di questo tipo: fra le infinite scelte che l’artista può operare, che cosa è giusto rappresentare tramite l’arte? La realtà, la dignità degli individui, i loro diritti, dare una voce a chi non ce l’ha. Ma se questo costringe l’artista a rappresentare l’orrore e la distruzione, e il sistema della comunicazione ben si presta ad accogliere queste rappresentazioni, come fa con le foto-notizia che bucano gli schermi, è giusto che l’artista resti legato alla denuncia, al circolo vizioso di distruzione orrore morte? A cosa serve rappresentare l’orrore se sappiamo bene che atroci misfatti avvengono perché qualcuno ha interesse a non impedirli, a non prevenirli?
Salgado aveva costruito il suo successo con reportage che coglievano le ragioni dell’umanità e raccontavano le storie della loro negazione, spesso dovute a scelte geopolitiche “inevitabili” e “anonime”. Abbandona i reportage dai luoghi di crisi, sceglie di fare un altro discorso. Dedicarsi a un discorso di vita invece di restare schiavo della cronaca di morte. Sentirsi vivi andando a fotografare gli ambienti naturali e gli animali, anche a costo di esser giudicato rinunciatario e bucolico. Lélia Wanick Salgado, curatrice del progetto Genesis del 2008, spiega: “Genesis è la ricerca del mondo delle origini, come ha preso forma, si è evoluto, è esistito per millenni prima che la vita moderna accelerasse i propri ritmi e iniziasse ad allontanarci dall’essenza della nostra natura”. Grazie al contributo di Leila, Salgado individua così il progetto “giusto” per superare la crisi creativa: osservare la vita e dare vita, curando l’ambiente e conoscendo i modi e i ritmi della natura. Il passaggio che conclude la storia del film di Wenders è la decisione di Sebastião e Leila di dedicarsi alla fazenda inaridita di famiglia, e di piantarvi migliaia di alberi per farla tornare il luogo fecondo di cinquant’anni prima. E, come nel noto racconto di Jean Giono, tornati i boschi, ritorna l’acqua, ritornano gli uccelli e gli animali selvatici, l’ambiente favorevole alla vita umana. Il progetto artistico di Sebastião e Leila è  stato entrare in sintonia e favorire i modi della natura: un artefatto nella natura e con la natura.

Sebastião e Leila hanno ricreato un mondo vivo e ospitale, la fazenda dell’infanzia felice. Un eden, un’utopia? No, un progetto, che si chiama Instituto Terra e si può vedere qui: http://www.institutoterra.org/.
[Lorenzo Perrona]