giovedì 2 marzo 2017

recensione: Le lunghe notti di Domenico Trischitta





Su "La Sicilia" di oggi la mia recensione al nuovo libro di Trischitta.


Del marinaio e del prete, ecco la città notturna di Trischitta

Le lunghe notti di Domenico Trischitta (Avagliano, 2016, 152 pp., 14 €) è un libro di cuore e di pensiero, come lo sono i libri importanti, perché il suo narrare ci porta ad interpretare il mondo secondo una chiave di lettura inedita, in controtendenza. Immersi come siamo in un discorso pubblico che parla ossessivamente della diversità minacciosa di persone o gruppi – stranieri o migranti che siano – nelle lunghe notti di Trischitta le figure di alterità e di devianza ci appartengono, siamo noi.
Addentrarsi nella città notturna, preferibilmente nel suo ventre molle, il centro storico dove si annidano le consuetudini più ineluttabili e inconfessabili, dove le esistenze di persone comuni si intrecciano ma non si incontrano: “Del camionista”, “Della puttana”, “Del prete”, “Del marinaio”, “Di Cettina”, “Dell'assassino”... Essere nella pelle di un piccolo mafioso omicida, percorrere la sua vita squallida e banale – così come è banale il male – dove l'orrore non diventa neppure tragedia. Gente sballata, turbolenta, gente persa. Di solito di notte la evitiamo, ne abbiamo paura, ma di giorno siamo accanto a loro alla cassa dei supermercati, all'ufficio postale, davanti a scuola a prendere figlioli. Appena ci soffermiamo, inavvertitamente o incautamente, ecco che ci è facile capire il flusso dei loro pensieri. Li riconosciamo, sono così vicini ai nostri… Forse sono i nostri.
Anche in questo libro di Trischitta, scrittore visceralmente catanese, si riconosce Catania, così come in Una raggiante Catania, 1999, Glam City. Una Catania che non è da meno rispetto alla Los Angeles di Robert Altman, come scoprirà il lettore attento di Le lunghe notti.
Ma queste “storie”, che farebbero gola a qualsiasi redazione di reality televisivo per la loro sintesi pungente e disturbante, sono incastonate in una struttura letteraria esibita fin dai titoli (con il latinismo del complemento di argomento: “Del camionista” ecc.). Una ricerca di scrittura che ci sbalza ad un altro livello conoscitivo – “destino”, “casualità”, “morte” – e che ci conduce verso un'altra realtà, la realtà delle illuminazioni, delle epifanie. (Ed ecco allora che avanzano in schiera i numi tutelari, Céline, Brancati, Berto, Tondelli…).
E fra tutti i personaggi devianti e inquieti, proprio fra la pornostar e il viaggiatore, Trischitta, candido e maledetto, ci mette “lo scrittore”. Lo scrittore che di giorno vorrebbe “immortalare una generazione”, la sua, quella degli anni '80 di cui vagheggia le mitologie pop, e di notte anela alla fatidica risposta di un editore, e affronta sgomento il vuoto che i grandi scrittori del passato hanno saputo riempire. Perché, ci dice Trischitta, lo scrittore è necessario. Non solo perché scrive, ci mette le sue parole, ma anche perché vive, ci mette pasolinianamente il suo corpo.
Quindi le parole e il corpo dello scrittore sono il significante di quelle esistenze scabrose e brutali in cui vitalità e mortuario si mescolano e ci intossicano. E' lui che le fa diventare voci monologanti, e nell'oggettivazione della narrazione, quando diventano storia e scrittura, quello è il momento del distacco in qualche modo salvifico. La narrazione riscatta l'inferno in vita, non in senso consolatorio o moralistico, ma con un gesto etico di consapevolezza, il solo che permetta di scrollarci di dosso la morte e l'inconsapevolezza. Se quella vita è finita così, anche la morte è compiuta e ce la possiamo lasciare finalmente alle spalle.


Lorenzo Perrona

"La Sicilia" 2-3-2017, p.18