Su "La Sicilia" di oggi la mia recensione al nuovo libro di Trischitta.
Del marinaio e del prete, ecco la città notturna di Trischitta
Le
lunghe notti di Domenico Trischitta (Avagliano, 2016, 152 pp., 14
€) è un libro di cuore e di pensiero, come lo sono i libri
importanti, perché il suo narrare ci porta ad interpretare il mondo
secondo una chiave di lettura inedita, in controtendenza. Immersi
come siamo in un discorso pubblico che parla ossessivamente della
diversità minacciosa di persone o gruppi – stranieri o migranti
che siano – nelle lunghe notti di Trischitta le figure di alterità
e di devianza ci appartengono, siamo noi.
Addentrarsi
nella città notturna, preferibilmente nel suo ventre molle, il
centro storico dove si annidano le consuetudini più ineluttabili e
inconfessabili, dove le esistenze di persone comuni si intrecciano ma
non si incontrano: “Del camionista”, “Della puttana”, “Del
prete”, “Del marinaio”, “Di Cettina”, “Dell'assassino”...
Essere nella pelle di un piccolo mafioso omicida, percorrere la sua
vita squallida e banale – così come è banale il male – dove
l'orrore non diventa neppure tragedia. Gente sballata, turbolenta,
gente persa. Di solito di notte la evitiamo, ne abbiamo paura, ma di
giorno siamo accanto a loro alla cassa dei supermercati, all'ufficio
postale, davanti a scuola a prendere figlioli. Appena ci soffermiamo,
inavvertitamente o incautamente, ecco che ci è facile capire il
flusso dei loro pensieri. Li riconosciamo, sono così vicini ai
nostri… Forse sono i nostri.
Anche
in questo libro di Trischitta, scrittore visceralmente catanese, si
riconosce Catania, così come in Una raggiante Catania, 1999,
Glam City. Una Catania che non è da meno rispetto alla Los
Angeles di Robert Altman, come scoprirà il lettore attento di Le
lunghe notti.
Ma
queste “storie”, che farebbero gola a qualsiasi redazione di
reality televisivo per la loro sintesi pungente e disturbante, sono
incastonate in una struttura letteraria esibita fin dai titoli (con
il latinismo del complemento di argomento: “Del camionista”
ecc.). Una ricerca di scrittura che ci sbalza ad un altro livello
conoscitivo – “destino”, “casualità”, “morte” – e
che ci conduce verso un'altra realtà, la realtà delle
illuminazioni, delle epifanie. (Ed ecco allora che avanzano in
schiera i numi tutelari, Céline, Brancati, Berto, Tondelli…).
E
fra tutti i personaggi devianti e inquieti, proprio fra la pornostar
e il viaggiatore, Trischitta, candido e maledetto, ci mette “lo
scrittore”. Lo scrittore che di giorno vorrebbe “immortalare una
generazione”, la sua, quella degli anni '80 di cui vagheggia le
mitologie pop, e di notte anela alla fatidica risposta di un editore,
e affronta sgomento il vuoto che i grandi scrittori del passato hanno
saputo riempire. Perché, ci dice Trischitta, lo scrittore è
necessario. Non solo perché scrive, ci mette le sue parole, ma anche
perché vive, ci mette pasolinianamente il suo corpo.
Quindi
le parole e il corpo dello scrittore sono il significante di quelle
esistenze scabrose e brutali in cui vitalità e mortuario si
mescolano e ci intossicano. E' lui che le fa diventare voci
monologanti, e nell'oggettivazione della narrazione, quando diventano
storia e scrittura, quello è il momento del distacco in qualche modo
salvifico. La narrazione riscatta l'inferno in vita, non in senso
consolatorio o moralistico, ma con un gesto etico di consapevolezza,
il solo che permetta di scrollarci di dosso la morte e
l'inconsapevolezza. Se quella vita è finita così, anche la morte è
compiuta e ce la possiamo lasciare finalmente alle spalle.
Lorenzo
Perrona
"La Sicilia" 2-3-2017, p.18