lunedì 1 settembre 2014

Considerazioni sui racconti di Domenico Trischitta


1999 (Il Garufi, 2013) è il secondo libro di narrativa di Domenico Trischitta (il primo fu il romanzo Una raggiante Catania che vinse nel 2008 il Premio Nino Martoglio). Formalmente si tratta di una raccolta di racconti. In realtà storie-frammenti depistano e poi guidano il lettore in una struttura letteraria riccamente congegnata, con sorprendenti rimandi interni, indizi, riferimenti letterari e cambi di prospettiva, tanto da dare l’impressione che questi racconti siano un romanzo esploso in frammenti, che le storie-frammento abbiano una loro entropia che tende a formare un affresco, il romanzo di un io narrante e di una città, Catania.
Storie minime di vita concreta, brevissime, che ruotano intorno a una situazione o a pochi gesti; raccontate con oggettività, senza elegia, ma con una passione sempre sottesa e un senso costante del dramma, se non del tragico. (Trischitta è anche scrittore di teatro e in queste pagine circola un tema presente nei suoi testi teatrali più noti, Bellini a Puteaux, sulle ultime ore del musicista solo e malato, e Sabbie mobili, sull’attrice catanese Daniela Rocca, protagonista di Divorzio all’italiana di Pietro Germi e poi anch’essa perduta nella malattia e nella solitudine: dove il tema è l’ossessione del successo e la fragilità dell’artista).
Storie minime e quotidiane che rompono la quotidianità fittizia per aprire squarci di verità, innanzi tutto grazie al titolo, “1999”, detonatore che fa scattare la memoria e il bilancio di una vita. Una data-confine, punto infinitesimale di passaggio e cambiamento; punto di osservazione esistenziale da cui origina la narrazione. Ma ancor più salta la quotidianità fittizia grazie alla dislocazione nella marginalità del soggetto del racconto (il tedesco, la danese, ma anche l’io narrante, continuamente affermato e smentito dal passaggio dalla prima alla terza persona, sono figure che l’esistenza spinge ai margini della città). Un’operazione di scrittura molto interessante perché attraverso di essa le cose importanti, “pesanti”, diventano oggetto di narrazione, mentre le cose “insignificanti” decadono: “L’ideale sarebbe quello di essere dotati di una memoria letteraria, che riuscisse a purgare i ricordi pesanti da quelli insignificanti, così i traumi e gli episodi rimossi della nostra vita ci apparirebbero d’improvviso nuovi e carichi di vitalità, insomma degni di essere raccontati” (p. 98).
Raccontare da un’ottica di marginalità serve a guardare in faccia l’alienazione delle esistenze, l’espropriazione dei destini, l’impossibilità della pienezza. Serve a vivere e raccontare un “male oscuro”. La lucidità e la consapevolezza sono l’estrema possibilità di farlo senza mentire o auto-ingannarsi.
Il libro di Trischitta ci immerge quindi nella dimensione della contemporaneità, ce la fa palpare (non dico gustare perché purtroppo questo mondo a volte disgusta), ce la esprime - e questa espressione è già gesto vitale e reattivo. I processi storico-politici che influiscono sulle nostre esistenze, in questo libro, che pure fa riferimento al passaggio fra due millenni, programmaticamente non entra. La scrittura del libro è un esercizio, salvifico, per tenere a bada il dolore. Non c’è nessuna Gerusalemme, celeste o mondana che sia. Più che una via di uscita, allora, il libro indica gesti di resistenza e di vita: il sollievo per la guarigione di un figlio, la solidarietà fra marginali, il ritorno a casa. Non certo soluzioni rappacificanti, piuttosto un’accettazione provvisoria e consapevole della realtà che ci tocca da vicino.

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