venerdì 26 aprile 2019

Enrico Lo Verso. Uno nessuno centomila… noi


Pachino, 11 marzo 2019. Una tournée che dura da tre anni e lo porta da un capo all'altro della Penisola, come facevano i capocomici della tradizione italiana, con in più l’esasperata mobilità contemporanea (ieri sera Rovigo, stasera Pachino). C'è tanta tradizione attoriale nello spettacolo di Enrico Lo Verso. Quella del “grande attore” che sceglie un testo e se lo cuce addosso per dare agio alle sue qualità interpretative. Lo scavo psicologico, particolarmente curato con una tecnica di ascendenza cinematografica, che punta alla costruzione delle motivazioni del personaggio e a una lettura della “realtà attraverso l’interpretazione  dell'attore. Il tutto con grande misura: anche nell'intensità della resa emotiva (come nella recente docu-fiction Infinito, dove Lo Verso dà corpo a Michelangelo), nel gioco sorridente dei personaggi, delle voci, dei gesti che prendono vita nell’ora e mezza di monologo che Alessandra Pizzi ha tratto dal romanzo pirandelliano. E, alla base di tutto, cè l'attore che incarna un patrimonio culturale comune, da non dimenticare e da riscoprire con rinnovato stupore.  
Sul palco spoglio un unico elemento scenico: la cornice di un imponente specchio nero, che non serve tanto al personaggio, quanto al pubblico. Dovrebbe essere la trappola in cui lasciarsi cadere per chiedersi, oltre al solito chi sono io individuo, soprattutto chi siamo noi, pubblico, collettività, comunità che viviamo oggi in Italia, in questa Sicilia dove le ossessioni pirandelliane sono nate. Il Moscarda di Enrico Lo Verso ci conduce nei meandri della sua psiche, nella gabbia delle sue costruzioni intellettualistiche, come ad esempio l'opposizione decadente vita/arte e le mille convenzioni e convinzioni borghesi; e il suo penare e patire nella “stanza della tortura (secondo lefficace definizione di Giovanni Macchia) ce lo fa sentire vicino, anche se quelle problematiche esistenziali ci suonano datate, e paradossale è la fuga nella follia, invece dell'impegno e della lotta contro una società insopportabile e oppressiva. Ma la frammentazione dell'io, e soprattutto l'affabulazione fluente e sofistica pirandelliana sono fondamentalmente la cifra stilistica espressionista, l'oltranza, del disagio novecentesco a cui Pirandello diede forma, e che ci ha lasciato in eredità.  
Lo Verso lo rende con il cuore in mano, la sua arte scenica è abilmente dissimulata nella simpatia che ricerca e spesso trova intensa fra personaggio e pubblico, utilizzando la sua popolarità di divo del cinema. Un Pirandello più cordiale, molto diverso da quello nero, intellettuale, anti-borghese di regie di qualche decennio fa (penso a quelle di uno dei più originali interpreti pirandelliani, Massimo Castri). Un Pirandello popolare, non tanto filosofo ma affabulatore che dà voce ai cortocircuiti della ragione. E qui scatta la trappola tesa al pubblico, che nello specchio nero dovrebbe decifrare un'immagine di sé, una propria rappresentazione di cosa siamo noi oggi. 
E allora, caloroso affetto a Pachino per Lo Verso, che qui è di casa. Una partecipazione del pubblico che ha riempito la sala del Politeama, e che magicamente non entra in contraddizione con i bagliori dei cellulari che articolano il privato anche in pubblico, durante lo spettacolo (come Lo Verso ha fatto bonariamente notare nel saluto finale dopo i lunghi applausi). Tutto sta insieme, apparentemente senza contraddizione. Dallo specchio nero l'immagine della nostra moltitudine stenta a prendere forma, più che mai frammentaria. Follia e paradosso non scuotono più nessuno. Per vedere un'immagine simile a noi nello specchio nero, quello che serve è una più dirompente fuga nella ragione, non nella follia. Una ragione che, con la cordialità e l'umanità che Lo Verso mette nella sua interpretazione, ci renda disponibili a comprendere con empatia i centomila, inimmaginabili, disorientanti casi della vita su cui siamo chiamati a prendere posizione. 

Lorenzo Perrona 

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