lunedì 28 aprile 2014

Una recensione critica (2-2-2013)

Sicilia Contemporanea

Steve McCurry, la forza violenta di uno scatto


A Palazzo Ducale di Genova è stata prorogata al 7 aprile 2013 la mostra del fotografo americano Steve McCurry, Icons. Di grande effetto per la sua spettacolarità, la mostra è un’ottima occasione per riflettere sulle scelte culturali che la logica dei “grandi eventi” implicitamente impone.
Organizzata con dovizia di mezzi da Civita e Palazzo Ducale, il titolo italiano Viaggio intorno all’uomo risulta meno pregnante e vigoroso di quello inglese. Lo stile di McCurry si impone con la forza del colore e con la forza, quasi subdola, della determinazione ad appropriarsi del mondo. Reporter di guerra e di viaggi. Reporter-mito: forse l’ultimo fotografo che si è mosso nel mondo come un cacciatore in cerca di prede, che poi mette a disposizione del nostro occhio come trofei. Ha percorso il villaggio globale, ne ha gustato le meraviglie (o gli orrori), e ne ha tratto immagini talmente nette e forti da essere perfette per la diffusione attraverso i mass media. La dizzyness, la vertigine perturbante colta dal reporter di guerra, così come la poetry, la poeticità delle immagini virtuosisticamente composte nell’occhio del fotografo, stanno a rappresentare un mondo a nostra completa disposizione, senza segreti. E se ci sono segreti, saranno presto svelati.
Ma il problema che McCurry non risolve è quello del distacco critico rispetto al proprio modus operandi. Perché ci mostra un bambino piangente che si punta una pistola alla tempia? Perché quel cadavere arso e irrigidito, le braccia aperte rivolte al cielo, accanto alle carcasse di carri armati nel deserto? Non basta dire che queste immagini forti sono una denuncia contro l’orrore della guerra. Le immagini registrano in modo talmente fedele la violenza che, inconsapevolmente, se ne fanno portatrici, non si limitano a rappresentarla.
Non a caso nel suo progetto più coerente, The Last Roll, è chiara la centralità del medium, il mitico ultimo rullino di pellicola Kodakrome. In quel mondo di tonalità cromatiche, McCurry ha racchiuso un’affascinante galleria di volti, tutti prestigiosi, perché tutti “icone”: sono esposte, una a fianco all’altra, personalità di notorietà mondiale, come Aung San Suu Kyi o Robert De Niro, e volti di sconosciuti, come il pastore afgano dalla barba tinta di rosso o il giovane catanese con la coppola e i baffetti ben curati o il neonato tibetano incastonato nella sua coperta multicolore o la giovinetta afgana dagli occhi verdi e lo scialle bruciacchiato color vinaccia. Quest’ultima giovane sconosciuta è stata colta nel 1984 alla scuola del campo profughi di Nasir Bagh vicino a Peshawar, Pakistan. Ha negli occhi la forza e la leggiadria della giovinezza e la paura della guerra. Ha fatto il giro del mondo sulla copertina del “National Geographic”. Quasi trent’anni dopo, un documentario televisivo, posto nell’ultima sala della mostra: un dispiegamento di forze (informatori, analisti dell’FBI ecc.) alla ricerca della prova dell’identità di quella sconosciuta giovinetta, ormai diventata donna e madre in un paese martoriato da guerre e bombardamenti, e icona nei nostri paesi dove le guerre, per fortuna, non sono più guerreggiate. La ricerca della sua identità, così esibita, non annienta forse la persona che è stata quella giovinetta, le sue caute, intelligenti
parole di oggi, la sua vita segnata dalla guerra? Il livello del discorso che lo stesso McCurry e i suoi curatori hanno scelto, se da una parte assicura un alto numero di visitatori, dall’altra suscita qualche perplessità.


(Lorenzo Perrona, "Corriere del Ticino", 2-2-2013)

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